Anna Maria Farabbi: il tempoluce della meditazione

Anna Maria Farabbi è nata a Perugia, dove vive: poetessa, traduttrice, saggista, ha ammesso in un’intervista apparsa recentemente sul web (www.cosebellemagazine.it) di non saper definire confini e identità del suo lavoro, ma di spalancare l’intenzione di integrità e interezza tra il fare interiore, dentro cui avviene la gestazione ritmata della parola, e la scrittura che si deposita sul foglio. Questa dichiarazione di poetica o di approccio testuale alla letteratura, l’avevamo percepita specie nella silloge bilingue La magnifica bestia (Edizioni Alphabeta 2007) dove emergeva una parola icastica, tagliente.

Anna Maria Farabbi, nella sua ultima opera, consegna una pluralità di toni e voci in un effetto melodico dalla pronuncia aggettante, germinata nell’interiorità: Dentro la O (Kammeredizioni 2016), in cui la parte iniziale (prosa d’arte) tramuta la disposizione poetica in una costruzione mentale di lettere: “Non si lavora abbastanza nella resistenza, non si praticano abbastanza le vie della congiunzione, non si disobbedisce abbastanza ai comandamenti del re e alle sue seduzioni, non si esplorano, non si attraversano, non si seminano i campi incolti. Non riconosciamo una creatura maestra che ci tocca la spalla”. Una metaforica tramontana fa raccogliere da terra la O e permette di impiantare un flusso coscienzioso che sfugge ad ogni previsione e controllo, come fosse la risultante di una possibilità, il guadagno di una lunga, sofferta meditazione.

La poesia, in questa silloge, è rarefatta, non si afferra ad una prima lettura, ma ad una seconda. L’io narrante si addentra nelle stanze di un istituto psichiatrico e cammina con i suoi matti, protetti dai cinghiali e dai lupi che sono fuori, ribaltando dunque una concezione ideale di normalità e trasformandola in simbologia della vita restituita all’incontrario. Qui la poesia si fa mentale e soprattutto visionaria, una creazione allucinata nel percorso che segue la lingua extrasoggettiva, sospesa in un mondo sfaldato, in uno scisma della quotidianità. “se io passo di giorno so che mi guardano pensando / che sono una nomade con la luce sulla lingua e sui sandali  // di notte non sanno dove scompaio  / ruotando sui nodi del tappeto della mia tenda interiore / si chiedono perché voglio perdere per strada cantando / i miei zecchini e il mio nome”.

“Il mio silenzio contadino raccoglie / anche la morte” è forse il punto più alto di una peregrinazione di sentimenti e di un viatico verso la ricerca della fedeltà al proprio modo di intendere un dolore oscuro e il transito verso una pace cogitabonda, punto cardinale dei componimenti. “è solo una poesia di sabbia scesa sul foglio / non la mia deposizione / è una minima sosta di polveri con me dentro: / il gioco dell’anna aperta ostinatamente anche a te e al vento”. Questa anna sembra il corrispondente di un diminutivo femminile ridotto a lettera minuscola, ma in realtà sigla lo stretto contatto con le tante sfaccettature dell’anima che compongono, tessera per tessera, la persona in un sistema di partizione linguistica tra racconto ed epigramma.

Anna Maria Farabbi, ritornando ad una svolta narrativa, afferma perentoriamente: “Sento l’alba, nella lenta fessurazione sorgiva della luce. Ciclica annunciazione del giorno. Assisto alla nascita di un nuovo arco di tempoluce dentro cui lavorare interiormente, abitando gli elementi tra le altre creature, con le altre creature”. Il tempo dei disagiati psichici (che sono quelli della comunità di Torre Certalda, un complesso residenziale ubicato a Perugia) e il tempo dei morti si assomigliano. La casa di cura sembra un condominio di defunti, ma il camminare è inteso come forma di affrancamento tra “postura e leggerezza”. La O non è una metafora celeste, ma la costante proiezione di un equilibrio, di un’improbabile perfezione giottesca. I versi più rappresentativi sono quelli dove emerge una totalità innalzata per tutti, una fruttuosa annunciazione: “il mio canto d’amore appartiene alla poesia civile / perché con la mia lingua suono / malgrado tutto / il profondo desiderio del tu”. Anna Maria Farabbi tenta sempre un dialogo con accensioni analogiche, in una celebrazione del bene che sfocia da un grigiore ambientale, da testimonianze tormentate. La sua poesia si compie in un attraversamento di spirito e corpo, come era stato anche in Abse (Ponte del Sale 2013) tra passaggi di vento e immaginifiche realtà, per scoprire che l’io, in fondo, non è altro che la propria casa.

Alessandro Moscè

 

 

 

 

 

Condividi

1 commento a “Anna Maria Farabbi: il tempoluce della meditazione

  1. La poesia di Farabbi è sempre una sorprendente unità di corpo-voce, intendendo per ‘corpo’ la fattiva esperienza nel mondo – mondo di ‘creature’ non in senso biblico ma di rispetto d’amore – e per ‘voce’ una poesia che a volte non è di parole, ma di gesti e di con-tatti e di accoglienze e di doni rivolti al ‘tu’ che sta di là dall”io’, per farne un ‘noi’. Quando diventa parola di fiato e di inchiostro spesso è così lavorata dalla meditazione da farsi strada-annuncio. Al bene attivo nel mondo e nel pensiero. Politico nel senso più alto, etico.
    Milena Nicolini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.