Paolo Lagazzi: quella luce è amore o illusione?

Paolo Lagazzi

Paolo Lagazzi è nato a Parma nel 1949 e risiede a Milano, dove si occupa di letteratura, buddismo, musica, cinema e pittura. Ha curato i Meridiani Mondadori dei poeti Attilio Bertolucci e Maria Luisa Spaziani, nonché del critico Pietro Citati. I suoi interessi si rivolgono in particolare agli autori giapponesi e alle culture orientali. Tra i risvolti della recente attività di Lagazzi si segnala l’esordio romanzesco (potremmo definirlo un romanzo di idee, un vero e proprio romanzo-saggio) con un’intensa storia d’amore e amicizia, seppure i due sentimenti siano costantemente in attrito. La vicenda è sospesa in un vuoto pneumatico dove il pensiero è coniugato all’immaginazione ed emergono più domande che risposte, una volta rotta la diga dell’anima. Domande che “tornano in folla”, che si ammassano, paragonate ad una nuvola mossa dal vento, a pensieri appesi alla forza di ciò che scivola via. Non c’è plot in questa narrazione, ma un immenso fondale amalgamato dove attingere per esprimere, in un’unica cadenza tonale, questi sentimenti che durano addirittura anni, tersi quanto struggenti, dolorosi. Il titolo è Light stone (Passigli 2014), vale a dire “pietra leggera” o “pietra di luce”, a significare un peso nello stomaco o un bagliore nitido di ametista per un’autentica prova di fedeltà nella sfida della comunicazione virtuale.

Francesco, il protagonista cinquantenne, è un violinista esiliato dal mondo ma dotato di un candore adolescenziale, oltre che di un talento musicale che lo porta ad esibirsi in giro per il mondo. A Tokyo conosce Shoko, una giovanissima interprete, con la quale, una volta rientrato in Italia, instaura un dialogo muto mediante lo scambio di e-mail che alimentano il loro rapporto a distanza. In tal senso la relazione si svela, per analogia, anche come confine invalicabile tra Occidente e Oriente, specie nella mutevolezza della protagonista, capace di essere sempre diversa nelle sue sembianze fisiche. E’ un confronto pieno di dubbi, resistenze, pentimenti, espansioni e remissioni che Paolo Lagazzi inscena con straordinaria mobilità linguistica. In fondo Francesco non solo non conosce Shoko, ma non sa più capire neppure i propri umori, il regno infinito dell’eros e i meandri oscuri del sogno e dell’illusione. Forse l’incertezza discreta di un amore a metà, irrisolto, nasce dall’infanzia vissuta come un “dono immeritato”, dalla passione per i maestri zen, dalla vocazione ad ascoltare l’altro come fosse, ormai, una pratica desueta nell’esperienza quotidiana. Ha scritto Stefano Lecchini su “La Gazzetta di Parma”, che “la voce che racconta questo Light stone ci si offre subito, con la perentorietà di un’ingiunzione: «Non chiamatemi Ismaele», prendendo così le distanze da quella narrazione terza, in qualche modo esiliata dalla ribalta del racconto”. Shoko sembra tradurre tutte le ombre di Francesco, le sue incongruenze, il “fiato scuro del tempo”, compresa la stanca quotidianità con la moglie e la figlia.

Paolo Lagazzi sa descrivere con nettezza e precisione: Shoko si affaccia come una dea, una sirena, una ninfa. “Il suo essere graziosa era l’insieme dei lunghi capelli di un profondo nero corvino, la pelle sfumata tra l’oro e il cacao, le collinette dolci e appena gonfie della guance, i luminosi occhi nocciola, la fronte non molto alta, ma larga…”. Il contatto tra i due, dipanato di mese in mese, non fa altro che tendere un filo esile, trasformando ogni parola in un doppio peso, in ipotesi, elucubrazioni, congetture. Francesco coglie i dettagli, ma la sua psiche si innerva di desiderio, perché è la corporeità che manca all’accoglimento completo, salvo nelle due visite in Giappone dove però non c’è stato un congiungimento carnale tra i due. Paolo Lagazzi è bravo nell’ambientare, come quando fotografa i colori del legno caldo degli edifici, dell’intreccio autunnale delle foglie, delle cose sfuggenti con le gamme della ruggine, del verdastro, dello smeraldo. O quando mette a fuoco un cimitero nel suo accumulo di pietre: “Se un filosofo pessimista avesse tentato di progettare a tavolino un grande Teatro del Nulla, un’architettura intesa come espressione del più irriducibile nichilismo, non avrebbe saputo concepire niente di più perfetto nella sua assenza di ogni, sia pur minimo, brivido umano, di ogni tenerezza o pietà”. Resta l’enigma di questa amicizia particolare e di questo amore mancato, fino alla domanda chiave, all’accostamento più estroso: “Come estrarre da una bottiglia un’anatra cresciuta dentro di essa senza uccidere l’animale né rompere il vetro? Come sfregare una tegola per farla diventare uno specchio? Cosa rispondere ad un eco per ridurlo al silenzio?”. Ma Shoko è reale o fantasmatica? Esiste o è una creazione al di là dello spazio che la separa da Francesco? E’ lontana solo per la separazione di due mondi, l’occidentale e l’orientale?

Lagazzi palesa con innocenza ogni desiderio e colpa dell’uomo nell’accentuazione ossessiva della riconoscibilità di Shoko (si è detto di un romanzo sulla patologia dell’amore nel suo arrembaggio psicologico). Tutto ciò che avviene materialmente è scarno, essenziale, ma non lezioso, né banale o vacuo. Anzi, nel romanzo non succede nulla, ma è la carezza voluttuosa del piacere e un miracolo offerto dalla tensione che Shoko provoca, a rendere seducente la fluidità narrativa, palpabile nel suo sortilegio e nel suo ignoto, nei cambiamenti significativi dello stato d’animo declinato per lo più in effusioni non corrisposte. Perché il protagonista potrebbe essere entrato, chissà quanto di proposito, dentro un malinteso (o incantesimo?) con il pretesto di non uscirne più. Il suo universo è indecifrabile, come la ritrosia della giapponese potrebbe essere un messaggio criptato, “perla” o “tagliola”. C’è un’assonanza tra Light stone di Paolo Lagazzi e Che tu sia per me il coltello del grande scrittore israeliano David Grossman (Mondadori 1999). Qui un uomo nota una donna sconosciuta che sembra volersi isolare dagli altri. Le scrive una lettera proponendole un rapporto profondo, aperto, libero da qualsiasi vincolo. Si crea un mondo privato nel reciproco avvicinamento dove la sensualità si nasconde nelle calibrate parole e in un varco interiore. Il coltello permette di frugare dentro, metaforicamente, ma in modo disarmante. Negli ultimi anni si leggono spesso romanzi in cui sembra insopportabile che nell’epistolario con una donna non ci si metta completamente a nudo, catapultandosi nell’altra senza alcuna ritrosia. Paolo Lagazzi svela una solitudine che non imprigiona Francesco e lo spinge, infine, verso la consapevolezza che i momenti più intensi sono quelli non vissuti, come nella leopardiana convinzione che l’attesa del sabato superi, nell’onda emotiva, il compimento della domenica.

Scriveva Dino Buzzati: “L’immaginazione, con la certezza di un prossimo incontrastato esaudimento, sviluppava le più eccitanti e lussuriose ipotesi che naturalmente sarebbero state poi deluse”. E’ forse la meditazione della pratica zen che induce ad un segreto protratto, ad un insieme di segni e gesti che Lagazzi ha riprodotto nel suo romanzo, perché “un’anima innamorata possa nutrirsi d’infinito” e controbattere il senso di vertigine e di spaesamento di fronte ai ritmi frenetici di oggi (a tal proposito ricordiamo, di Paolo Lagazzi, Vertigo. L’ansia moderna del tempo, un saggio edito da Archinto nel 2002, dove i temi sono approfonditi con ineccepibile rigore). Il dubbio permette di aderire ad una percezione cosciente che non si rivolge più in modo unilaterale verso un dato oggettivo, esterno, ma converge verso il soggetto nella sua endogena, sfuggente visione. E ogni volta Shoko appare ripensata, trasfigurata: lo specchio di chi la guarda con immutata irriducibilità e dolcezza. L’amicizia e l’amore, però, sono destinati a perdersi. L’analogia è con i morti di famiglia che aspettiamo uscire da un teatro, da un tempo differito provocato dal sonno. Francesco diventerà un “Dio dei marciapiedi”, decidendo di uscire di casa, di notte, per incontrare barboni e diseredati nel bassifondi della città, semplicemente suonando il violino, accompagnando il loro dormire accovacciati sotto un ponte, annientati dalla stanchezza. Conoscerà una donna polacca, una “creatura di nessuno e di tutti”, e regalerà il suo strumento prima di essere “risucchiato dal tritacarne di un istante inappariscente come qualunque altro, sbriciolato, annichilito, consunto fino al midollo nel Nontempo”. Vertigine, abisso, fallimento, o semplicemente pace e grazia guidano il suo ultimo viaggio? In Light stone c’è qualcosa del clima del noto poeta giapponese Kikuo Takano, molto amato da Lagazzi: è nient’altro che quell’essere incuneati in uno spazio dove premono sottili le nostre domande di sempre, la meraviglia nel recepirle familiari nelle scansioni di una lingua lontana eppure assoluta. L’unicità dell’essere umano, probabilmente, è il punto di accordo tra la nostra letteratura della tradizione e quella giapponese, nel rispetto di un sistema, terra-vita, spesso violato.  Accorata, perfino spasmodica una delle ultime frasi del romanzo: “Lasciò che la nota finale si spegnesse sulla prima corda, filo di un orizzonte irraggiungibile, lama tesa oltre la punta di se stessa, protetta contro il rischio di spezzarsi solo da un ultimo, improbabile sorriso”.

Alessandro Moscè

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