Umberto Piersanti: “Paolo Volponi è stato poeta notevole, narratore grandissimo”

paolo volponi

di Davide D’Alessandro
da Huffingtonpost

Penso a Paolo Volponi e a Umberto Piersanti e mi vengono in mente i due torricini d’Urbino, della poesia d’Urbino. Ho chiesto al secondo di raccontarmi qualcosa del primo, a pochi giorni dal centenario della nascita e a pochi mesi dal trentennale della morte. C’è un luogo dell’anima che li lega, pur tra sensibilità diverse.

Umberto, qual è il primo ricordo che hai di Paolo Volponi?

Anni Cinquanta. Ero un ginnasiale e lui stava facendo un comizio in piazza per i repubblicani. Parlava del vento che passava tra i vicoli d’Urbino. Ne rimasi colpito e affascinato.

Che cosa rappresenta il suo doppio anniversario?

In un’epoca in cui tutto è molto spettacolare ed effimero, lui è il rappresentante di una scrittura che è dentro le cose, che s’impegna e s’interroga senza mai strizzare l’occhio per compiacere. Rimanda a un tempo in cui la scrittura era scrittura, gli scrittori non erano influencer, calciatori o cantanti e il genere, per quanto presente, non era soffocante come oggi.

Che poeta è stato?

Il più grande è il primo Volponi, quello de “Il ramarro”, “L’antica moneta” e “Le porte dell’Appennino”, una importante trilogia campestre sull’ultimo mondo contadino, con protagonisti gli animali, il fringuello, l’anatra. Vi è una tensione al cambiamento, un impegno sociale tanto forte, una rabbia ancestrale, ma sempre con tensioni liriche. Penso a “La valle dei due fiumi”, dove nomina donne e cacciatori.
Non era poeta gradito all’Avanguardia, tanto che sul “Verri” scrissero che lui spruzzava di rosa la miseria contadina, come Attilio Bertolucci. Il secondo Volponi mi convince di meno, anche sul piano della forma.

Del narratore che cosa pensi?

Volponi è stato notevole come poeta, grandissimo come narratore, dove tutte le sue capacità si incontrano e trovano realizzazione e compimento. I suoi personaggi sono un po’ squilibrati e diversi, hanno posizioni estreme contro una socialità che li soffoca, e godono della simpatia dell’autore. Ne “La macchina mondiale” c’è un contadino, Anteo Crocioni, che appare strano, mentre rappresenta la follia di un uomo che combatte contro una società angosciante. Il saluto alle Marche mi ricorda l’addio ai monti di Lucia.
Nel suo romanzo combattono persone turbate, inquiete; combattono contro il destino, contro l’assurdo, contro un’oppressione esistenziale, non metafisica. I momenti lirici restano straordinari. Volponi rimane poeta anche nel romanzo, con pagine quasi leopardiane.

Il Volponi politico non ti ha mai convinto?

Mi ha convinto qualche volta, soprattutto quando affrontava con concretezza i problemi della nostra terra. Il problema è che mi sentivo molto distante dalla sua visione umorale e viscerale. Io sono sempre stato un riformista, lui accettava con disinvoltura la dimensione dittatoriale che c’era nell’Est, non riuscendo mai a condannarla. Anzi, era giustificazionista oltre ogni limite. Non ricordo parole dure di Volponi neppure contro i terroristi. L’ideologia non glielo consentiva. Non prese mai le giuste distanze dal comunismo reale e da quei movimenti che hanno segnato i momenti bui della nostra Repubblica. Aveva creduto in un’industria dal volto umano. Ne rimase profondamente deluso.

Hai un ricordo personale?

Quando feci il ritratto di Volponi per la Rai di Ancona, mi disse: “Bada a quel che fai, Umberto, perché sono stato filmato solo da Pasolini!”. Era burbero ma simpatico, simpaticamente burbero. Mi pregò di mandare via Cinzia, una ragazza bellissima che avrebbe dovuto recitare una piccola parte, perché gli faceva male al cuore. Poi la stessa Cinzia, molto sorpresa, mi raccontò che le aveva chiesto: “Quanti uomini si sono battuti al coltello per te?”.

Urbino e Volponi, nemo propheta in patria?

Il Premio Volponi l’ha ideato Fermo, non Urbino. Credo di aver detto tutto. C’è una lettera di Pascoli del 1900 inviata a un prete amico. Dopo aver parlato di Urbino con entusiasmo, il grande poeta aggiunge: “Quel che mi cruccia è che benché io sia un belniente, a Urbino sono considerato meno che niente”. Il rapporto di Urbino con coloro che l’hanno illustrata, a eccezione di Raffaello e forse di Carlo Bo, non è mai stato riconoscente. Purtroppo.

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