
Nel saggio Dello spirituale nell’arte Vasilij Kandinskij scrive: “il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde.” Per Silvio Ramat il viola rappresenta innanzitutto una tenace passione per la magica maglia della Associazione Calcio Fiorentina, che gli apre la strada ad un universo di emozioni, di ricordi familiari e non solo infantili.
Di qui il titolo per la sua ultima raccolta di versi Il viola (editore Crocetti), che trova il suo naturale centro di ispirazione nella memoria.
Come scrive Giacomo Leopardi, i sogni e i ricordi possono essere inquieti e dolorosi, ma la memoria li addolcisce, li riverbera in una dimensione mitica. Per il grande Recanatese la rimembranza è essenziale nel sentimento poetico, volto alla ricerca del vago e dell’indefinito. L’infanzia è forse il luogo privilegiato del ricordo e il nostro poeta apre il libro con una sezione dedicata ai suoi primi anni, introdotta dalla lirica Miracolosamente risparmiata, in cui scrive: “…l’infanzia/ è un chiodo perso ritrovato perso/ ad ogni piè sospinto…”. La sua memoria è una memoria salvifica, che riporta al presente ciò che invece appartiene al passato, ma poiché danzano e giocano tra loro gli anni, Silvio Ramat si accorge di confondere a volte le date, le circostanze da cui scaturisce il suo ricordo: “La memoria acrobatica volteggia/ fra le età della vita/azzarda il volo. /Chi non può farlo è l’essere più solo”. Se si parla di una possibile colluttazione con il tempo, nella poetica ramatiana, questa va individuata nell’ostinata lotta contro l’oblio, affidata alla dea Mnemosine. Esemplare a questo riguardo va ricordato il poema Mia madre un secolo/racconto in versi (Marsilio, 2002), in cui l’autore ripercorre la lunga vita della madre, dimessa nell’apparenza ma eroica nella sostanza.
Nella sezione Familiare, che apre il nuovo libro, l’autore narra della vita austera che ha caratterizzato la sua infanzia in famiglia, nei primi anni del dopoguerra, in una casa dove non c’era uno specchio, se non nel sottosuolo, in una camera in cui dormiva una ragazzetta di campagna addetta alle faccende domestiche: “Forse lei in quello specchio si guardava. /Almeno lei. Usciti in strada a volte, / dal marciapiede sbirciavamo in giù:/ specchio ragazza camera leggera/ una tendina a velarci la scena”. Una sottile ironia permea questi versi, ed è un’ironia frequente nelle opere di Ramat, unita ad una continua ricerca di leggerezza. Talvolta la memoria è involontaria, suggerita dal sole, da un battito d’ali, oppure da un cielo viola, capace di suscitare nell’autore un caldo flusso di emozioni, un sussulto di ricordi e di affetti: “Il viola/ di quel cielo è il colore degli affetti/ e da quel viola sgorgava memoria/ fervida nell’eclissi della storia. / Affrancato il poeta da ogni scoria/ di pensiero, felice che a quel viola/ gli venissero le lacrime agli occhi, /un pianto vivo più della parola”.
Non si può negare che un tratto del volume sia la nostalgia: desiderio per il passato, spesso idealizzato o rimpianto, in una sorta di spaesamento; nella lirica La nebbia, com’era, suonano i versi: “Diversamente dal pieno, suo greve/ inseparabile antagonista, / il vuoto dicono sia un’astrazione/ ma il poeta all’antica si concentra/ nel tesoretto delle sue memorie”.
Il libro si suddivide in dieci sezioni: Familiare; Il privilegio; Polittico di Milano; L’albero nuovo; Una lunga vigilia; Fletus; L’opposta riva; Voliera; Ispirazione e amore, L’unica traccia.
Forse la più intensa e commossa delle sezioni è il Polittico di Milano, città definita meravigliosa, nella quale Silvio Ramat ha percepito, vissuto l’odore della poesia: le vie di questa città gli parlano dei poeti da lui frequentati e amati, i cui nomi gli aprono il cuore: “…il cuore si emoziona/si ritrova al tempo dei miei viaggi/ di culto e di istruzione. Scorgo Sereni e Giudici, / Fortini, Erba e Raboni e Loi e Gramigna…/ e molti altri il cui nome è svanito/ perfino dalla mia memoria antica”. È sufficiente infatti che l’autore li nomini per rivederli. Talvolta la memoria lo disorienta, lo confonde, ma intatti restano i luoghi dove nacque Gadda, o il giardinetto di Lalla Romano: “Una di séguito all’altra riscopro/ le strade in cui ebbe casa Sereni. / Poi lo sguardo rincorre le montagne/ fino alla Grigna, il nido di Lucini.”
Come osserva Giuseppe Langella, Silvio Ramat si affida al sogno, veicolo privilegiato per la conoscenza e una maggiore capacità immaginativa, che permette all’uomo di trascendere in una dimensione che supera i confini della vita quotidiana. Il sogno si manifesta attraverso visioni, si carica di simboli, sognando si ha la sensazione di vivere in un’altra dimensione. E il poeta si chiede in una splendida giornata luminosa, in cui la luce inonda tutta la natura e gli ricorda quando da bambino sotto l’ombra dei pioppi imparava a contare fino a venti; e se, ormai anziano, sia ancora il tempo di sognare. La risposta non può essere che categorica: “Oggi alla resa dei conti, sognare/ è forse più difficile, ma devo”.
La natura ha un ruolo fondamentale nell’animo e nella poesia di Ramat: “… ciascuna pianta è una creatura, /un individuo che vive per sé” (Il malumore) e bisogna curarla con molta attenzione, non violarla senza alcun rispetto. Più che i giardini curati, il poeta ama gli orti: “Ai miei occhi si offre/ un verde prato all’inglese, quadrato/ odioso e sciocco a chi non ha scordato/ gli orti vivi di un tempo, orti minuti/ che tutti insieme creavano l’Orto.” È la natura che nasce spontanea, non preordinata dall’uomo, a stupirlo, come il fico che può nascere ovunque: “…Ma no, la bellezza / del fico, la sua gloria/ è quel nascere a caso, sulla spinta/ sine causa di venti scriteriati”. Spesso è un dettaglio, un particolare a suggerire al poeta una visione epifanica, come l’incontro con un bianco airone: “Chiedo al Bacchiglione un segno qualsiasi/ e d’improvviso il prodigio, che invano/ tante volte s’invoca, prende forma/ e figura: è il nostro airone bianco”, e più oltre: “Resta un minuto, poi le ali lo portano/ leggero verso sud. Ho avuto l’oro/ del mio mattino e ne farò tesoro”.
Il senso più profondo del nostro essere è il rapporto con la morte, perché la caducità della nostra esistenza è essenziale per la valutazione della vita. Il tempo, Cronos, che divora i suoi figli, è una delle tematiche principali di tutta la poetica ramatiana assieme alla memoria, ma la sua scrittura rimane sempre legata alla leggerezza e talvolta si vela di ironia. Il ricordo delle persone care scomparse e il suo avvicinarsi al limite dell’esistenza, suscita nella sezione Una lunga vigilia un esame della propria coscienza e il poeta si chiede se mai abbia commesso qualche grave colpa: “Nessuno è tanto protervo da credersi/ in equilibrio tra il dare e l’avere/ e poi, tutti, sentiamo che non quello/sarà il metro di giudizio, la vita/ non era un esercizio commerciale.” Troviamo qui una sorta di giustificazione, di un’innocenza forse mai perduta, come nella poesia Conversione in cui l’autore si domanda se non sia giunto il tempo di convertirsi; la risposta è negli ultimi versi: “Neofita, oggi mi figuro l’attimo/ che cederò serenamente a un sonno/ di là dal quale vite senza orpelli/ di gesti o di parole mi salutano/ anima nuda fra nime nude.”
Nella sezione L’opposta riva, il poeta si figura giunto nell’Aldilà e una tale rappresentazione del futuro gli suscita le più varie immaginazioni: dall’angosciato al sognante e perfino al giocoso. Ne La vita postuma: i frammenti, scrive: “Se il mio stanco pedestre endecasillabo/ darà fastidio ai superstiti, via// Sia frantumato in coriandoli o in schegge/ non troppo acuminate, anzi, qualcuno/ carezzevole al tatto”.” Già nel poemetto che dà il titolo alla raccolta In cuor vostro ed altri versi (Crocetti, 2019) l’autore si immagina in un Oltre vita per raccontare ai figli quello che si può raccontare di un luogo immateriale: “Come darvi un’idea del nostro sole – /di quel che si vorrebbe chiamar «sole» /con parole terrene dove niente/ somiglia veramente al vostro sole.”
Costante nel poeta fiorentino è il tendere alla parola esatta, pur nell’adozione di un endecasillabo dall’andamento narrativo, che caratterizza il suo stile in senso antiretorico. Il tono è sempre estremamente raffinato e al tempo stesso contenuto. Di suggestiva eleganza, Pioggia e preghiera così inizia: “Insisti insisti la pioggia è musica/ e un po’ alla volta diventa preghiera. /Difficile impararne la cadenza/ e dentro la cadenza le parole.”
È pur vero che l’autore, come si è visto, si abbandona al pensiero della morte immaginandosi al varco verso l’Oltre, ma in questo libro, come precisa il risvolto di copertina “si profilano, ariosi correttivi, le immagini e i sogni del ricominciamento, in un diffuso ricrescere di alberi ed erbe, di nidi e voli che nessuna insidia o potatura può soffocare.” Un senso di rinascita si legge ovunque in queste pagine e nell’ultima si legge: “Basta aver fede, e nascono tramonti/interminabili: è tale il rossore/ che la notte si trattiene in disparte” e ancora: “…Non ha interrotto la cicala/ alunna della luce il suo concerto/ senza sponde, tormento a cielo aperto/ e forse goccia d’immortalità”. Versi, questi, che ci prospettano una innegabile quanto inesplicabile ipotesi di eternità.
Raffaella Bettiol