I Padri della parola

Padre è la figura di colui che offre i primi strumenti materiali e spirituali per la crescita d’un figlio, con il quale possono nascere situazioni conflittuali, ma legate sempre da un innegabile rapporto affettivo. Naturalmente padre non è soltanto colui che dà, in senso stretto, biologicamente la vita, ma anche colui che sa guidare umanamente ed intellettualmente i propri allievi-figli. Paradigmatico è il legame, creatosi, nella Divina Commedia, tra Dante e Virgilio, che gli è guida nel viaggio infernale e purgatoriale.  Non si tratta di una paternità di sangue ma acquisita da Virgilio, poiché accompagna Dante nella discesa agli Inferi e nella salita al Purgatorio con l’affetto di un padre che affianca il figlio nel viaggio della vita.

Il libro, curato dal poeta Tiziano Broggiato, I padri della parola (Luigi Pellegrini editore 2022, prezzo 16 euro), riunisce le testimonianze di ben diciassette autori, i cui racconti s’incentrano su quelle figure di maestri che sono state fondamentali per la loro, talvolta inconscia, vocazione poetica. La sua lettura è un viaggio estremamente appassionato e appassionante, perché ogni poeta con grande sincerità racconta gli incontri, le esperienze vissute nel difficile cammino del poiein. Nel suo scritto d’apertura intitolato …perché il maestro insegna, segna dentro, Broggiato, dopo aver ricordato il suo maestro e concittadino Fernando Bandini, lamenta come nella generazione dei poeti nati a partire dagli anni ‘70 manchi un vero senso di comunità poetica ed ognuno proceda in modo autoreferenziale, talvolta, dimenticando o confondendo la storia letteraria. Per questo motivo l’autore ha chiesto a diciassette poeti noti, nati prima degli anni Settanta, di raccontare le loro frequentazioni, non solo da una prospettiva letteraria, ma umana, con i loro maestri. Da ciò sono scaturiti degli affreschi vividi ed intensi, ricordi venati di nostalgia, ma anche d’amore; scrive Patrizia Valduga di Giovanni Raboni: “Tutto il bello e il vero che porto in me lo devo a lui”.

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Nostalgia e ritorno ne ‘Il canto della Moabita” di Sergio Daniele Donati

il canto della moabitaIl canto della Moabita, di Sergio Daniele Donati (Ensemble 2021), è una silloge nella quale si intrecciano e, diremo quasi, si avviluppano tre temi, realtà o vite che formano l’identità dell’autore, un avvocato milanese di origini ebraiche. Esse sono, appunto, la componente culturale della prima religione monoteista, la grande tradizione del pensiero occidentale (da ricercarsi soprattutto nell’Antica Grecia) e la particolare atmosfera di Milano, città dai mille volti e dalle mille personalità. Orgogliosamente l’autore si dichiara figlio di queste tre radici e le accomuna attraverso liriche peculiari, che non potrebbero essere scritte da nessun altro, poiché sarebbe difficile trovare un autore con un tale intreccio di miti fondanti.

Quasi ad ogni pagina si staglia prepotente l’identità ebraica dell’autore, non solo attraverso la rivisitazione di temi propri di questa religione e di questa cultura, ma anche nella lingua. Sono molte le poesie della silloge col testo ebraico a fronte, prova del fatto che Donati ama esprimersi con queste due voci che felicemente si alternano nell’intimo nucleo della sua personalità.

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Fragile ogni creatura

umana fragilitàC’è un’espressione nella notevole prefazione di Paolo Ruffilli che mi sembra particolarmente pertinente a condensare il senso di Umana Fragilità, il nuovo libro di Raffaella Bettiol, edito dalla Biblioteca dei Leoni: questa umana fragilità si estende ad ogni creatura ed è forse la cifra di ogni vita, di ogni essere, magari anche di quella materia da cui è composto l’universo.

Una pietas, direi sospesa tra la dimensione classica e la tradizione cristiana, che investe la sorte di un piccolo uccello: “Un ultimo tuo respiro ho colto/ in un angolo del porticato/ tra briciole di pane e scarti di città. / Ogni vita così fragile e perduta/ così chiara e inconoscibile/ come lampo a breve si spegne.” È una tra le poesie più emblematiche per comprendere la Weltanschauung della poetessa padovana: questo piccolo uccello diventa simbolo stesso della grande fragilità che coinvolge tutti gli esseri: fragilità che è ancora più struggente, aliena da ogni retorica, in quanto individuata nella più fragile e indifesa delle creature.

Questa pietà investe l’umanità intera, non intesa in senso astratto, ma condensata nelle pagine, che si incontrano sia “nel silenzio del dolore” che nella “pienezza della gioia”.
Certo il dolore accampa ovunque, ma c’è una qualche speranza che tenace perdura: Natale è il giorno di ogni nuova vita che nasce: “quel grumo di sangue e carne/ che già respira in un ventre.”
La speranza di uscire da una dimensione drammatica resta, ma sempre sospesa ad un punto interrogativo, ad un qualche difficile intervento forse trascendente, ma sempre inserito nell’umano: “Quali angeli solleveranno anime/ dalla nuda terra/ dalle spoglie dissipate del tempo?”

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Laiche per “La folle tentazione dell’Eterno” di Fernanda Romagnoli

  1. Chi scrive poesia sembra riprendere il periodo scolastico quando la maestra prescriveva come compito in classe un tema libero. La mente allora prendeva armi e bagagli culturali e si perdeva in luoghi chissà quanto inesplorati: – Avete il foglio di protocollo? Chi non ce l’ha se lo faccia prestare, poi piegate a metà la parte lunga e scrivete a sinistra, così in quella libera farò le correzioni -. Si faceva esperienza della poesia pur non capendone nulla (perché dentro quella prosa c’erano i rudimentali versi di una, ignara, unicità). Anche di giorno si faceva notte quando iniziavi dal principio e non sapevi quale direzione cogliere con tutto quel bianco, poi un lampo oscuro e la penna quasi vagava da sola: si andava bene fuori tema ma i sentimenti si ritrovavano, sempre.

  2. Quando cresce la voglia di scrivere ci sono due modi (una dualità) per uscirne fuori: farsi prendere dalle emozioni oppure leggere, assimilare e farsi prendere dalle emozioni. Quando c’è veramente elaborazione nella pratica le parole accettano un peso specifico: un rapporto tra il peso dei significati e la portata dei silenzi perché arrivino certe immagini, come un accordo preso in precedenza a discapito di chi crede di ordinare quello che ha in mente. Così è il modo di raccogliere “La folle tentazione dell’eterno” ben curata da Paolo Lagazzi, con la preziosa collaborazione della figlia della poetessa, Caterina Raganella, la quale ne scrive una breve biografia. Il tutto per “Interno Poesia” (casa editrice che, assimilando altre sue pubblicazioni, vuol far scoprire e riscoprire la poesia di autrice e autori, dai conosciuti ai meno) e l’accurata nota filologica di Laura Toppan e Ambra Zorat, le quali oltre a raccontare l’excursus delle edizioni succedute, ricordano come questa nuova fa circolare anche testi irreperibili.

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Benvenuti a “I luoghi persi” di Umberto Piersanti

i luoghi persi piersanti1. Le stagioni sono pronte a contraddire l’etimologia come le giornate a perculare i meteorologi, ciò succede nel misurare l’andamento dei versi in Piersanti: sono onde emotive tra passato e presente e viceversa, in loop; nella raccolta apice della sua carriera (folta di riconoscimenti) come concorda Galaverni nell’introduzione alla riedizione de “I luoghi persi” (impreziosita da alcuni inediti) che, nella sua nuova veste (carta patinata e copertina dalla grafica riconoscibile), Crocetti (editore rinomato per la poesia e per la sua rivista) rende merito.

2. La memoria del poeta è sempre viva, calda come l’”estate che perdura” e che apre le danze al libro: sciorinano così gli scorci delle Cesane e i loro miti, i propinqui con le loro maniere, le dogaie che celano chissà quali arcani, la beltà che sboccia dall’agro (il tanto decantato favagello che soltanto Wordsworth lo ha sfiorato. Il nostro autore reinventa un florilegio in un intero capitolo), l’arbore quanto eros avrà registrato, insomma, tutto quello che può seminare e florido trasformare in parole per un foglio, due, una serie di pagine, un manuale vitale.

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I luoghi persi d’ostinato amore

i luoghi persi piersantiÈ di Crocetti l’elegante riedizione del primo libro einaudiano di Umberto Piersanti I luoghi Persi, arricchita di una sezione di nuovi inediti ed introdotta da una splendida e precisa prefazione di Roberto Galaverni, esegeta e amico da lunghi anni dell’autore. La raccolta, che vide la sua prima pubblicazione nel 1994, con una nota di copertina di Carlo Bo, ha segnato un passaggio cruciale nella poetica piersantiana. Dall’esuberanza vitalistica di Passaggio di sequenza, dove l’eros e la natura si fondeva, in un susseguirsi rapido di vicende e luoghi, pervasi dalla melodia dell’endecasillabo, si passa al canto della memoria, al mito della propria infanzia, dei luoghi e dei familiari. Come scrisse Bo I luoghi Persi rappresentano per l’autore le sue Georgiche di carattere personale, dove, tuttavia, l’idillio si confronta con l’ineluttabile dispersione del tempo e il dolore per la perdita di ciò che si è amato. In questa raccolta Piersanti diviene il cantore delle Cesane, di quella catena collinare che fa da cornice ad Urbino, suntuosa d’ogni tipo di vegetazione e di una civiltà contadina ormai scomparsa, operando un recupero memoriale non realistico, ma mitico e favolistico. Questo mondo diverrà la sua patria poetica, scaturita da un’urgenza interiore insopprimibile e si farà canto, sinfonia di colori, di odori e suoni nel ritmo cadenzato dei versi, come nota Elisabetta Pigliapoco.

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Recensione di ‘Per cieli e per astri’ di Lorenza Bizzotto

Per cieli e per astri

La poetica di Lorenza Bizzotto nel suo recente libro: Per cieli e per astri, pubblicato da Arcipelago Itaca nel 2021, con risvolto di copertina di Umberto Piersanti, nasce dal distacco, dal senso di orfanezza per la perdita della madre, la cui presenza, nel denso della natura, riaffiora in attimi divini e inafferrabili. “Niente ci plasmava/ meglio di quel vento, / di quella foglia immota, / compresa tra la piana assolata/ e il monte fresco di ribes/ appena colto”. Ed è l’elemento naturale benigno ed epifanico, in un susseguirsi di mutamenti, di accensioni improvvise, a darle conforto, a farle percepire e amare dimensioni cosmiche. Scrive nella poesia Fu quando il sole: “fu quando il fulmine/ disegnò la sua curva, alta tra i cirri;/ fu quando l’orizzonte cessò d’esistere/e il vuoto mi colse, negli spazi infiniti”.

L’io poetico della Bizzotto richiama la grande tradizione classica e presenta aspetti psicologici e meditativi, che suggeriscono accenti, propri del Romanticismo, in particolare di quello nordico Ma rivela inoltre uno sguardo attento e preciso a tutti i minimi dettagli del paesaggio: “Conosco una radura, / ai margini del bosco/chiara d’acque e di luci;/ vi attendo scoiattoli e volpi/ negli autunnali mattini;”. La patria poetica della nostra autrice è situata nei paesaggi verdi e montuosi di Bassano del Grappa, cittadina situata tra il famoso Monte Grappa e i sette comuni dell’Altopiano di Asiago, dove si è svolta e si svolge la vicenda umana di Lorenza Bizzotto. Il libro, suddiviso in tre sessioni (Stagioni, Riflessi, Sogno) è dedicato alla madre e alla ricerca dell’attimo perfetto capace di risvegliare e di far rivivere i momenti felici di un’esistenza; nella lirica Infanzia risuonano gli ultimi versi: “Era l’ora in cui il pulviscolo/ svaniva, tra i papaveri/ in ombra e i fiordalisi. / Era l’ora dei bagni/ nel greto azzurro del fiume”.

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Recensione di ‘Crocevia dei cammini’ di Luca Pizzolitto

«L’attenzione è il silenzio dei pensieri che si fa ascolto e sguardo. L’apertura di un dialogo muto con le cose. O la direzione di uno sguardo che ha scelto la sua meta e su di essa converge con l’abnegazione di chi sa sacrificare ogni indugio, anche piacevole, per rispondere a una chiamata, a un dovere. L’attenzione può richiedere un esercizio preparatorio, un atto di una sorgente, dal groviglio del sentire, separando dal nugolo dei pensieri un solo pensiero, il pensiero che è tutt’uno con la cosa che scegliamo di osservare o con la parola che decidiamo di ascoltare o con il gesto che vogliamo compiere. L’attenzione è invito di tutti i sensi a convergere verso un solo punto, verso una sola relazione. Anche se questo punto, questa relazione, può fiorire – nell’arco visivo o auditivo- sventagliandosi, moltiplicandosi. È quello che diciamo “stato di attenzione”. Questo stato di attenzione che trascorre sul molteplice e sul fuggitivo, è proprio, ad esempio, del cammino. Riapriamo Robert Walser, in una pagina della Passeggiata» in cui, con didattica postura, spiega al sovrintendente alle tasse l’utilità del passeggiare:

Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente: sia un bambino, un cane, una zanzara, una farfalla, un passero, un verme, un fiore, un uomo, una casa, un albero, una coccola, una chiocciola, un topo, una nuvola, un monte, una foglia, come pure un misero pezzettuccio di carta gettato via, sul quale forse un bravo scolaretto ha tracciato i suoi primi malfermi caratteri».

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